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Il racconto del nostro viaggiatore Massimo Bocale

Viaggio a Ganvié, la “Venezia africana” – Benin

News.

Il racconto del nostro viaggiatore Massimo Bocale

Viaggio a Ganvié, la “Venezia africana” – Benin

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Ganvié, inserita dall’Unesco nell’elenco dei luoghi culturali di prossima iscrizione, è un villaggio molto particolare e unico nel suo genere.

Fu costruito dai Tofinu fra il XVI e il XVII secolo nelle malsane lagune settentrionali del Nakoué, il lago che si trova a circa venti chilometri da Cotonou, la capitale del Benin. Lo costruirono per sfuggire agli attacchi degli schiavisti Fon, il bellicoso popolo loro confinante, che tuttora vive sulla terraferma. Nella lingua dei Tofinu Ganvié vuol dire “la comunità dei salvati”; dove “gan” sta per “siamo salvi” mentre “vie” significa “comunità”.

Queste inespugnabili paludi hanno inoltre fermato nel XIX secolo l’invasione dei colonizzatori europei preservando nel contempo l’originale organizzazione sociale, famigliare e religiosa.

Cotonou è il punto di partenza ideale per raggiungere il villaggio di Abomey Calavi. Qui con una barca a motore attraversiamo la grande laguna e raggiungiamo in circa mezz’ora il villaggio di Ganvié. Durante la navigazione superiamo imbarcazioni di ogni tipo e grandezza: piroghe che vanno sia a vela che a remi, barche che trasportano merci o ferme a pescare.

Entriamo nel villaggio lacustre percorrendo il “Canale dell’Amore” che è la via d’acqua più trafficata e raggiungiamo la “piazza” dove si affaccia l’hotel Raphael, anch’esso costruito rigorosamente in legno su palafitte.

Ganvié è il più grande villaggio palafitticolo della laguna. Qui tutto poggia su pali di tek, un legno imputrescibile: dalle semplici abitazioni allo spartano hotel, dal minuscolo ospedale ai rari camminamenti pedonali.

La vita di questo popolo è tutta concentrata sull’acqua e nell’acqua: ognuno, compreso i bambini, possiede una piroga che utilizza per spostarsi da una zona all’altra del villaggio. La vela, a volte formata da teli rattoppati, viene issata per affrontare i lunghi spostamenti all’interno della laguna.

Tutte le attività pubbliche avvengono nelle zone lacuali compreso il mercato, che si tiene nella grande “piazza”. Ci sono piroghe-bancarelle e un gran via vai di acquirenti che si muovono in barca.

I numerosi bambini sono dappertutto pronti a tuffarsi o a pagaiare su quelle minuscole piroghe costruite su misura per la loro altezza: all’età di due anni sanno pagaiare e a cinque sono in grado di pescare.

L’attività principale dei Tofinu è ovviamente la pesca. Alcuni pescano con il giacchio: la rete viene lanciata in modo tale che cada sull’acqua ad ombrello, altri invece utilizzano tecniche antiche come l’acadja, un ingegnoso sistema di pesca ancora oggi molto utilizzato. Sul fondale sabbioso vengono piantate delle recinzioni circolari formate da pertiche di bambù e paglia dove il pesce troverà un rifugio sicuro per crescere e riprodursi. Trascorsi circa tre mese il pescatore si calerà finalmente la rete.

I Tofinu barattano nei mercati in terra ferma i loro prodotti (pesce e l’olio di pesce) con carburante, ortaggi, frutta e verdura, ma soprattutto con la preziosa acqua potabile qui introvabile.

Ci fermiamo per la notte nello spartano hotel Raphael. Dalla finestra della nostra camera-palafitta osserviamo un ultimo sparuto gruppo di vivacissimi bambini che ancora giocano nell’acqua. Con il sopraggiungere dell’oscurità il fatato silenzio della notte viene interrotto a volte dal ritmico fruscio delle pagaie sull’acqua

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