Andrea Salonia, autore del libro “odiodio”, edizioni La Nave di Teseo, risponde alle nostre domande. Seconda parte.
Dr. Salonia, nel suo romanzo Lome è luogo della fine di un’esperienza e di inizio di un’altra. E’ luogo di arrivo e di ripartenza. Attribuisce all’Africa Occidentale e in particolare alle sue culture urbane una vitalità che apre a nuovi orizzonti sia individuali che collettivi?
Quando scrivo, studio. Così ho scoperto che Lomé viene da Alotimé, e nella lingua degli ewe significa “in mezzo alle piante d’Alo”. Ecco, pensando a Lomé non ho l’immagine di una città verdeggiante e di particolare fascino urbanistico o architettonico, e questo vale per le molte grandi città africane che ho avuto la fortuna di visitare.
Di ciascuna ho un ricordo diverso, ma forse la sola che abbia carattere suo proprio in termini di impianto strutturale è Adis Ababa; mentre di Città del Capo ricordo che fu capace di togliermi il fiato guardandola dall’alto della montagna della Tavola. Lomé no, come Accra, o anche Bamako: loro ti rimangono fortemente presenti al pensiero perché città di genti, le più varie, le più differenti. Il mio Faustino arriva nella capitale del Togo senza conoscere nulla dell’Africa occidentale; niente che non fosse ciò che, certamente bene, gli era stato proposto, anzi insegnato, dal mondo missionario cattolico.
E la sua era una città africana dei primi anni ’90, quindi totalmente altra rispetto a quella delle mie prima visite degli anni 2000; e ancor più altra rispetto all’oggi. Ma Faustino capisce, esperisce, un’enorme sensazione di vita. Mi piace molto questo concetto: “sensazione di vita” vorrebbe significare che il semplice stare in un luogo, che è fatto di cose e di persone, è capace di produrre emozioni forti, e non per forza positive. Non per forza immagini di sole o di fiori che sbocciano e profumi che ti inondano il cervello; no, le emozioni primarie di Plutchik, loro otto e tutte quante messe insieme, essenziali, crude.
E infatti Andrea Salonia, come Faustino, arrivato a Lomé, che è paradigma di tutte le città dell’Africa occidentale e di quelle culture urbane, sente gioia – che è densa e incommensurabile, ed è scoperta – e tristezza al tempo stesso, pure quella tanto vivida da far piangere. Ma i due, Andrea e Faustino, provano anche sorpresa e attesa, paura e rabbia; soprattutto, l’accettazione e il disgusto. Così mi è capitato proprio al mercato dei feticci di Akodessewa, che non può – e non deve, a mio avviso – lasciare indifferente nessuno: disgusto ma accettazione, proprio per le emozioni primarie che era stato capace di destare.
Ma un’altra città, Bamako, in me aveva determinato sentimenti totalmente altri: musicalità, Amadou e Mariam che cantano Un dimanche a Bamako; vivacità; gli scatti di Malick Sidibé e le coppie di innamorati che ballano scalzi la notte di Natale del ’63; festa e maiali sgozzati. E poi anche un’emozione verde. (Perché i colori esercitano un fascino profondo sulla mia persona, e Andrea ne subisce una vera e propria fascinazione, tanto da interpretare la più parte delle esperienze con un colore, classificandole come blu, gialla, rossa o perfino latte e menta, avete mai provato?).
Ma se poi andaste a Bissau, che è pure città d’acqua di fronte a quell’oceano che purtroppo non riesco neppure a immaginare solcato dalle migliaia di navi negriere, ecco lì il percepito sarà ancora diverso, fatto di mercati e di pulsioni quasi sensuali. Perché la vitalità di cui mi ha chiesto è poliedrica in tutti i conglomerati urbani dell’Africa occidentale, multisfaccettata ed eterogenea tra città e città, che ancora una volta smentiscono quel nostro occidentalissimo modo di pensare – forse anche soltanto di immaginare – l’Africa come un unico grande punto nero pieno di gente tutta uguale e tutta nera e tutta con le infradito ai piedi.
No, quella parte d’africa, almeno, è polmone di innovazione culturale fatta di arte – leggete Revue Noire, per esempio – e di capacità di reinterpretazione vivacissima della tradizione scultorea, pittorica, e materica in generale. E’ cuore pulsante di musica e suoni ancestrali che diventano ritornelli quasi ipnotici, misti ai loro corpi che ballano e si lasciano vestire dalla musica stessa. E’ sperimentalità dello scrivere e del mettere parole una dopo l’altra, con una durezza e una verità senza compromessi che forse soltanto dei pezzi di vetro riescono a essere più ficcanti, come ben ci raccontava appunto lo scrittore congolese Alain Mabanckou.
Io non sono mai stato in Congo, non vedo l’ora di esserci, e mi aspetto che la mia esperienza individuale possa diventare anche in quel caso parte della collettività che mi accoglie. Questa è l’Africa sotto il Sahara che ho conosciuto, e della quale è davvero molto difficile dimenticarsi. (Anche se non ci sono gli animali che ruggiscono e corrono veloci).
Prima parte dell’intervista
Terza parte dell’intervista