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Kossi KOMLA-EBRI, scrittore-migrante, risponde alle nostre domande. Terza parte

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Kossi KOMLA-EBRI, scrittore-migrante, risponde alle nostre domande. Terza parte

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LA PAROLA AFRICANA RESTA UNA PAROLA DETTA-PRONUNCIATA-RECITATA PIÙ CHE SCRITTA -FISSATA. QUESTA ORIGINALITÀ HA UN SUO SPAZIO IN UNA SOCIETÀ MULTIMEDIALE COME LA NOSTRA?

La parola è essenziale per l’uomo. Al principio c’era il verbo. Noi essere umani siamo e rimaniamo prima di tutto animali parlanti.
Il linguaggio compare con l’uomo e quindi la inclinazione a parlare è iscritta nei nostri geni. Si può benissimo togliere la scrittura all’uomo, ma privarlo del linguaggio lo snaturerebbe completamente. Ancora oggi, l’oralità è alla base del nostro modo di vita, e il linguaggio che usiamo per comunicare per scritto è fondato sull’orale.

Ancora oggi in Africa c’è la ricerca di esprimere un’oralità, necessariamente e irrimediabilmente persa nello spazio della scrittura. Vi è un maggior sviluppo d’opere teatrali, partendo dalle favole drammatizzate, spettacoli di favole-canti e danze tradizionali, fino a prove di teatro totale (danza, musica, pittura). Vi è una rinascita di creazioni collettive, di teatro tradizionale e popolare (cantates populaires) intrecciato al folklore e improvvisazioni con dialogo fra attori e pubblico.

Personalmente, cerco di conservare il valore dell’oralità nella mia scrittura, anche se la parola implica l’ascolto, la partecipazione ed è assai difficile trasmettere in scrittura il tono della voce, l’intonazione, la gestualità, l’espressione del viso o la creatività spontanea, l’improvvisazione.

I miei testi sono racconti che vanno letti ad alta voce. Quindi, quando li scrivo, li leggo, li rileggo, in modo tale che trasmettano l’elemento dell’oralità, che appartiene alla mia cultura. Rubo una parola dal creolo francese degli scrittori caraibici: ORALITURE.
Questo è un elemento per me importante in un gioco fra identità e memoria.

La tradizione orale è “tessitura della memoria”, lavoro di voce. Essa si trasmette nella singolarità della performance. La ripetitività qui non è il contrario della variazione ma la condizione della sua essenza.
Nel confrontare scrittura e oralità, ci accorgiamo che la scrittura riesce solo a mimare la funzione di conservazione che esiste nell’oralità. Inoltre l’ambivalenza del rapporto con l’oralità è quello d’oscillare perennemente fra collettivo e individuale.

Nel senso che l’oralità implica il pubblico, il collettivo, il gruppo, la comunità, mentre la scrittura riguarda l’individuo. Sappiamo tutti che le culture occidentali ruotano attorno all’individuo. La cultura africana avvolge tutti, generando una percezione d’identità di gruppo nel confronto di un’identità individuale. La cultura orale inoltre è olistica nella misura che coinvolge l’uomo in tutte le sue dimensioni anche quella corporea.

L’oralitura cerca di ripristinare anche la caratteristica fondamentale dell’anonimato del soggetto che scompare nella sua individualità nella totalità dell’indifferenziazione propria alla cultura orale che attinge per esempio a detti e proverbi: un patrimonio collettivo.
Quale spazio per l’oralità in questa società multimediale?

L’oralità ritorna con i media, non solo quella del telefono che vive di toni e suoni (da qualcuno definita vera e propria scrittura acustica) ma anche l’oralità del cinema, della televisione, del computer multimediale, di internet (sistemi audiovisuali, dove la dimensione suono sta alla pari, gioca assieme, si intreccia a quella alfabetico-visiva).
Vi è una netta riduzione della scrittura che si condensa in SMS, Facebook, WhatsApp, Twitter, Instagram, Tiktok, YouTube, Chat ed E-mail. Così siamo arrivati in questo periodo di confinamento, clausura (che gli italiani chiamano Lockdown) con i vari DAD (didattica a distanza) e Webinar su Skype, Zoom, Meet ecc…

C’è chi asserisce a giusta ragione che siamo passati da uomini monomediali (uomolibro) ad esseri multimediali (Uomini-Tv/Telefono/Computer/Radio/Libro, ecc…) reincorporando così i riti delle civiltà orali. Sembra quindi che oggi a dire dei studiosi che stiamo celebrando dentro i territori acustici dei media, dentro gli spazi dell’elettronica, il ritorno dell’oralità. Di fatto, vedendo l’uomo politico che ci parla dalla TV, ci si accorge oggi che la sua forza e autorevolezza stanno sempre di più meno in quello che dice. Si tende oggi a concentrarsi di più su come lo dice, su come si presenta, in poche parole sull’immagine di persona (corpo, movimento, indumento) con cui si presenta a noi.

Ma si tratta del ritorno ad un’oralità ben diversa…
Se la lettura implica un’attività del pensiero, la passività in cui ci mantengono questi mezzi audiovisuali ci relega ad una nuova oralità preistorica per la sua freddezza, ottusità, individualità e sordità all’ascolto.

RACCONTACI UN PROVERBIO

Ecco un proverbio sul villaggio:
“Per fare crescere un bambino ci vuole tutt’un villaggio”

Per approfondire:

https://www.kossi-komlaebri.net/it/

Prima parte dell’intervista
Seconda parte dell’intervista

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